L’autore di questo articolo è una persona che da poco ha conosciuto la Wilderness, sia come idea filosofica sia come movimento ambientalista; ma una persona che, come altri, aveva la wilderness dentro senza saperlo; ovvero, senza sapere che quei sentimenti che lo spingevano al mondo naturale avevano una loro connotazione ben precisa in campo filosofico. Nato nel piccolo borgo di San Severino Lucano, alle falde del Monte Pollino, egli è cresciuto a stretto contatto con un mondo agreste e montano, ma anche sociale, dal quale ha assorbito un sentimento spontaneo di amore e rispetto verso la natura che è di pochi; specialmente incompreso da chi da questo mondo ne è fuori da generazioni.
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Recentemente ho letto con estremo interesse la storia dei pionieri del conservazionismo – ispirato all’idea della Wilderness – apparsi periodicamente su queste pagine; storia che mi era quasi del tutto ignota. Gli autori presentati nei godibilissimi articoli sono davvero un motivo di ispirazione per tutti coloro che amano e vogliono proteggere la natura selvaggia. Mi sento in sintonia, soprattutto,con il ritratto e l’esperienza di John Muir, Bob Marshall ed in particolare di Sigurd Olson (peccato che non esistano traduzioni italiane delle sue opere). Mi ritrovo molto in Olson, in quanto necondivido la passione che subentra non per la natura in generale, ma per determinati luoghi selvaggi, a cui ci leghiamo dopo averli vissuti in solitudine e in una dimensione di continua scoperta. Sono sensazioni che ho provato anch’io. E penso che Olson si riferisse in realtà alla percezione dell’anima di un’area selvaggia. Un’anima, che, come dice il mio amico Giorgio Braschi a proposito del Pollino, è sfuggente e recepibile solo in alcuni momenti. Ho anche capito (perché l’ho vissuto) a cosa si riferisse Olson quando parlava di singing wilderness, un concetto che non è facile spiegare a parole ma che si può solo sentire in alcune situazioni, quando si ascolta il rumore del vento o il canto degli uccelli al mattino o lo scrosciare dei torrenti di montagna ingrossati dallo sciogliersi della neve delle vette, o ancora il grido del corvo imperiale o dell’aquila reale…
E’ questo l’approccio che più mi piace dell’esperienza wilderness: la via interiore alla natura e alla montagna. Ma c’è da dire che questo discorso dell’interiorità non si esaurisce solo in vaghe esperienze intimiste e sentimentali, perché amare la vita nella natura selvaggia non può che portare, come naturale conseguenza, alla battaglia per la preservazione della natura. E’ un aspetto che, come Franco Zunino si sforza di far notare, contraddistingue la filosofia wilderness, a differenza del mero approccio scientifico alla natura (biologi, zoologi) o sportivo (alpinisti). Ovviamente l’aspetto conoscitivo è presente, visto che i pionieri della wilderness sono stati anche dei naturalisti e degli esperti di flora e fauna, come ad esempio Aldo Leopold, che si occupava dell’interdipendenza che esiste in natura tra le specie viventi, o John Muir, che viaggiava e classificava sui suoi taccuini, specie di piante e animali. Ma anche l’approccio scientifico, che pure esiste nei precursori del movimento, sembra supportato dall’esperienza diretta nella natura e di conseguenza dal sentimento, direi quasi di “amore”, per il mondo selvaggio.
Ho ritrovato questi aspetti anche nei libri che mi ha mandato Franco Zunino, diversissimi tra di loro in quanto a contenuto (perché uno è un libro di racconti mentre l’altro è uno studio naturalistico sull’orso bruno). Non c’è contraddizione perché Zunino, pur essendo uno studioso della fauna selvatica, non si è limitato al solo approccio scientifico: il suo amore per la natura lo ha indotto a scrivere racconti che presentano sì, una base di solide conoscenze naturalistiche, che però sono trasfigurate dalle suggestioni e dalle visioni letterarie (che in genere appartengono sempre al mondo dell’introspezione). Ecco che quindi entra in campo la sfera del sentimento. Trovo in ultima analisi queste due opere e gli altri racconti inviatimi in profonda continuità con l’approccio del movimento wilderness americano.
Mi piace molto anche la figura di Marshall, visto che come lui ho la passione per le sfide, le lunghe camminate e le faticose scalate in solitaria (lui era depresso per non vivere ai tempi di Lewis e Clark. Che dovremmo dire noi?!). Anche se corro il rischio di essere troppo schematico, si possono a mio avviso individuare quattro poli della filosofia wilderness tra di loro interdipendenti, che qui di seguito cerco di spiegare.
La conoscenza della natura anche scientifica, è supportata dall’esperienza fisica nel mondo selvaggio, propria di chi vive la montagna e la natura; ma la natura suscita anche sentimenti di elevazione interiore che inducono a far emergere nella propria coscienza individuale quel concetto di valore in sé della natura, che si oppone frontalmente invece alla filosofia utilitarista che domina la società attuale (ho parlato di elevazione interiore perché spiritualità è un termine che, da non credente, non mi piace molto). Tutto ciò non può che sconfinare in un atto politico: ovvero nell’associazionismo e nella battaglia per la conservazione degli ultimi spazi rimasti selvaggi. Ed ecco che dall’esperienza individuale della natura si ritorna alla società e alle problematiche che concernono il rapporto della civiltà umana con la natura selvaggia… proprio tramite il concetto di tutela e conservazione (che rimanda alla considerazione delle “generazioni future”). Forse sarò stato un po’ schematico ma è questo l’aspetto più rivoluzionario della filosofia wilderness che a me è parso rilevante: la linea di collegamento tra l’esperienza e l’amore per la natura e la battaglia per la sua conservazione, con tutti i risvolti culturali e sociali che questo approdo può presentare. Penso perciò che, come sostiene Zunino, non si possa dissociare l’esperienza della natura dalla battaglia conservazionista. Altrimenti il vivere la natura si ridurrebbe solamente ad un’esperienza individualista della natura selvaggia, vale a dire quella che può essere, per esempio, l’esperienza di un avventuriero o di un alpinista o anche di uno scrittore “post-romantico” o anche di uno scienziato naturalista.
Concludendo, facendo tesoro della lezione del Movimento Wilderness americano, si può salvaguardare la natura solo mettendo in campo quelle sensibilità secondo cui, per citare la famosa frase che sintetizza felicemente il concetto di wilderness, “la wilderness è sia una condizione che uno stato d’animo” (considero questa frase eccezionale, perché colma di significato, a dispetto della sua brevità).
Concludendo, facendo tesoro della lezione del Movimento Wilderness americano, si può salvaguardare la natura solo mettendo in campo quelle sensibilità secondo la quale, per citare la famosa frase che sintetizza felicemente il concetto di wilderness, “la wilderness è sia una condizione geografica che uno stato d’animo”.
di SAVERIO DE MARCO
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