L’Uomo quale armonica parte inseparabile del mondo naturale e il mondo naturale come luogo per la sua soddisfazione spirituale.
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Intervento di FRANCO ZUNINO
Sede dell’ONU – Ginevra 9 Giugno 2009
Il Concetto di Wilderness ha le sue basi filosofiche nel pensiero di uomini quali Thoreau ed Emerson, che per primi trasformarono in una filosofia quello che è il sentimento che spinge l’uomo a cercare nella Natura delle soddisfazioni non solo materiali, ma anche spirituali, seppure abbia scoperto l’esigenza di quelle spirituali nel praticare quelle materiali. Ma queste basi nascevano però dall’esperienza e conoscenza che quei filosofi avevano del mondo ancora in gran parte primitivo in cui vivevano, quell’America allora agli albori della civiltà e della democrazia e da poco colonizzata, dove lo scontro tra civiltà era solo agli inizi.
La spiritualità e la solitudine che Thoreau andò a cercare quando visse la sua esperienza di Walden,che poi lo rese famoso (dopo avere scritto e pubblicato l’omonimo saggio) (1), non era dissimile da quella delle genti native d’America; diverso era solo il substrato culturale.
Ecco, quindi, che l’esempio più noto della filosofia Wilderness diffuso nella cultura occidentale è finito per divenire quello dei popoli pellerossa, che i colonizzatori bianchi scoprirono essere legati in modo inscindibile al mondo naturale selvaggio in cui vivevano e che loro scoprivano per la prima volta; quella selvaggità che definirono con la parola “wilderness”, ma che, per quei popoli che la wilderness vivevano, essa non aveva alcun senso, perché la wilderness dei “bianchi” era il loro mondo, il loro essere quotidiano, e, per loro, forse, “selvaggi” erano proprio i coloni che quel mondo non rispettavano e che volevano possedere materialmente, come poi, purtroppo possedettero!
Charles A. Eastman (Ohiyesa), dei Sioux (Santee Dakota), era uno di quei “primitivi”. Anni dopo egli scrisse della sua “infanzia indiana” e di quella quotidianità nella natura selvaggia che i bianchi chiamavano wilderness, con un significato allora assolutamente negativo, come luogo orrido e vuoto, di solitudine, e che solo molto più tardi scoprirono essere errato, e condizionato dalla sovrastruttura culturale datagli dalla cosiddetta civiltà. Mi piace qui citare alcuni passaggi di quel libro dalla cui lettura si può comprendere il rapporto intimo che questo popolo aveva con l’ambiente e che, per la sua forza espressiva, evoca lo spirito Wilderness più di tanti saggi di eminenti filosofi e/o pensatori: l’uomo come membro del grande cerchio della vita, in uno scenario ancora integro ed autentico dove anche la felicità ne era una componente. La sua importanza nasce dal fatto che, pur pubblicato per la prima volta nel 1902, sembra scritto oggi da un filosofo che voglia enfatizzare l’antico rapporto di quel popolo col mondo della natura. In realtà, la profondità di quanto espressovi nasce proprio dalla sua autenticità, perché, piuttosto che di ricordi storici, Ohiyesa ci parla delle sue emozioni e sensazioni, che pur durarono solo fino a quindici anni, quando fu costretto a lasciare la sua terra natia per la civiltà dei bianchi. Tra le tante altre cose egli scrisse: «Mentre i nostri tepee sorgevano a grappoli lungo le propaggini della fitta foresta che riveste il pendio laterale della montagna, la scena sottostante si presentava gratificante a un occhio selvaggio. Gli ondulati gialli pendii erano macchiati di mandrie di bisonti. Sulle sponde dei torrenti che scorrevano giù per la montagna vi erano anche molti alci, che apparivano di solito alla mattina e alla sera, e sparivano nella foresta durante la parte più calda della giornata. Anche i cervi erano abbondanti, e i ruscelli pullulavano di trote. Qua e là i torrenti erano sbarrati dall’industrioso castoro. Nell’interno della foresta vi erano laghi con molte isole, dove l’alce, il wapiti, e gli orsi si trovavano in abbondanza e gli uccelli acquatici si riunivano qui in gran numero. Per me, da ragazzo, questo ambiente selvaggio era un paradiso. Era la terra dell’abbondanza. Per essere obiettivi, non avevamo nessuna delle sfarzosità della civiltà, ma avevamo ogni comodità e opportunità e sfarzosità della Natura. Avevamo anche il dono di godere della nostra buona fortuna, contro qualsiasi pericolo potesse essere in agguato su di noi; e la verità è che vivevamo nella più grande ignoranza di ogni tipo di vita che potesse essere migliore del nostro. (…) Di regola, i cacciatori partivano prima del sorgere del sole, e il guerriero che veniva annunciato attraverso il campo come il primo a tornare con un cervo sulle spalle era un uomo da invidiare. (…) Alla fine, nel tardo pomeriggio, tutti i cacciatori avevano fatto ritorno, e felicità e soddisfazione regnavano sovrane, in un modo che non ho mai osservato tra la gente bianca, persino nella migliore delle occasioni.» (1)
Ohiyesa dimostra così ancora oggi a noi, gente di tutto il mondo e di tutte le epoche successive, con un messaggio che lui non sapeva essere tale, la grandezza della spiritualità del suo popolo, il sentirsi parte integrante di tutto ciò che li circondava e che li rendeva felici anche in uno stato che noi definiamo, ancora oggi, di indigenza, ma che tale non era per loro, che proprio nell’ignoranza culturale in cui vivevano (secondo i nostri criteri) avevano scoperto il segreto della felicità, invano da noi ricercato attraverso il danaro e le cose materiali.
La civiltà occidentale scoprì invece il valore spirituale della natura selvaggia, della wilderness, molto più tardi; la scoprì quando alcuni cominciarono ad accorgersi che la stavano perdendo per sempre, e con essa tutta la grande risorsa di biodiversità che la wilderness conteneva.
«La natura selvaggia è sia una condizione geografica che uno stato d’animo. Fa parte dell’eterna ricerca della verità che spinge l’uomo alla continua ricerca di se stesso e del suo creatore.» E’ questa la più bella definizione di quella che oggi in tanti definiscono filosofia Wilderness, una definizione che accomuna tutte le religioni e tutti i popoli del mondo. Essa è stata coniata da un anonimo funzionario del Servizio Forestale degli Stati Uniti d’America nel presentare una pubblicazione che illustrava quella che loro definiscono la “risorsa di wilderness”; cioè il complesso delle aree che in quel paese sono state e continuano ad essere preservate per il loro valore di per sé. Quella pubblicazione aveva per titolo “La ricerca della solitudine”, un bisogno interiore che la moderna civiltà spesso aborrisce, ma di cui l’uomo ha bisogno per ricreare lo spirito “ubriacato” dalle caotiche, inquinate e stressanti metropoli.
Quando nel 1977, in Sud Africa, si tenne il primo Congresso Mondiale sulla Wilderness, organizzato da Ian Player, il noto leader mondiale di questo movimento, l’allora capo del popolo Zulu Mangosuthu Buthelezi, oggi Presidente dello Stato del Kwa Zulu, ebbe a dire, nella sua prolusione al Congresso: «Credo che l’esperienza di wilderness sia necessaria allo sviluppo di tutti. Nella wilderness le barriere cadono e noi possiamo vederci l’un l’altro per quello che siamo e valiamo veramente. Se un numero sempre più numeroso di leader del mondo potesse incontrarsi nella tranquillità della wilderness, io credo che si svilupperebbe una maggiore comprensione tra i popoli.»
Oggi si parla della wilderness soprattutto come di luoghi da far rimanere selvaggi al fine di preservare la biodiversità del mondo; una decisione saggia e giusta, anche perché ormai molte delle aree protette sono per lo più gestite per fini tutt’altro che ambientalistici, bensì, specie nel mio Paese ma anche in gran parte dell’Europa, come aziende che producano posti di lavoro, turismo, e business, dove la conservazione della Natura, che pure doveva essere la priorità della loro istituzione, è lasciata all’ultimo posto. Allora ecco che le Aree di Wilderness, così come furono intese quando nel 1964 negli USA fu approvata la storica legge che in quel paese le difende, il Wilderness Act, si impongono anche come aree per difendere i Parchi e le altre aree protette dai governi e dai loro stessi gestori. Ed ecco che si preservano anche le ragioni spirituali dell’uomo, perché se è vero che ci si reca in natura per svago o per studio o anche per ricercare quelle risorse di vita di cui molti hanno bisogno, è anche vero che le emozioni e le sensazioni spirituali che ognuno di noi, ogni essere umano, prova quando si ritrova circondato dalla natura, finiscono per essere le vere ragioni per cui si praticano tutte quelle attività. Se ognuno di noi, di fronte a scenari naturali, a visioni di animali o di fiori o anche ad eventi quali il cadere della pioggia o della neve, o lo scorrere di un fiume, si chiedesse quali siano i sentimenti veri e primi del suo intimo, scoprirebbe che non i valori scientifici, non i valori materiali quale può essere la foto scattata, la soddisfazione fisica, o anche la preda raggiunta o la risorsa trovata, ma sono le emozioni che proviamo, quelle emozioni che ci restano dentro e che poi ci portiamo appresso e che anche a distanza di anni ci fanno ricordare luoghi e momenti piacevoli della nostra vita. Perché preservare i luoghi così come sono giunti a noi e come li ricordiamo è anche un poco – ed è l’unico modo che abbiamo -, per fermare il tempo; nulla è più triste e deprimente che ritornare in un luogo conosciuto ed amato e ritrovarlo stravolto, mutato, se non annichilito dallo sviluppo della società. L’unico modo che ogni generazione ha di lasciare una vera eredità a chi verrà dopo, affinché non siano dimenticate le radici del nostro essere, quelle radici wilderness che Aldo Leopold (uno dei padri del movimento conservazionista per la wilderness, che nella sua “Etica della terra” espresse le regole fondamentali dell’ambientalismo naturalistico) definì come «il materiale grezzo dal quale l’uomo ha ricavato il manufatto chiamato civiltà». Il concetto di Wilderness che è sprigionato dalla sua filosofia è proprio questo, un alt all’uomo imposto dallo stesso uomo, non già per penalizzarlo, ma per farlo crescere spiritualmente, per preservare con la natura selvaggia anche i valori spirituali che da essa l’uomo trae e di cui ha bisogno così tanto quanto del benessere fisico. Oggi Wilderness significa giustamente anche “forever wild”, luoghi da lasciare selvaggi per sempre, dove la vita naturale possa continuare il suo corso senza che l’uomo interferisca o la modifichi o la pieghi alle sue moderne esigenze materiali; luoghi dove la Natura deve restare prioritaria, la natura con tutte le sue prerogative e particolarità, che è poi, in fondo, la biodiversità.
Una società giusta non deve solo stabilire quanto e dove sviluppare, ma anche quanto e dove fermare lo sviluppo. Le aree di wilderness sono questi luoghi. «Una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biologica. E’ invece sbagliata quando tende all’inverso», scrisse Aldo Leopold.
Nel mio Paese, ma anche forse in Europa, sono stato il primo a cercare di diffondere questa filosofia affatto antropocentrica, ma il cui risultato pratico senza l’uomo neppure avrebbe senso. Lo feci affascinato da quel concetto del “forever wild” che assicura ad alcuni luoghi una perpetuità di conservazione che nessuna legge al mondo ha assicurato come ha fatto il Wilderness Act americano.
Le idee di quelli che io oggi definisco i filosofi-pratici del conservazionismo americano portarono a questa legge. Se Aldo Leopold («La wilderness è una risorsa che può diminuire ma mai aumentare. Le distruzioni possono essere bloccate o limitate in maniera tale da rendere un’area ancora fruibile per la ricreazione o per la scienza, o per la fauna, ma la creazione di nuova wilderness nel vero senso della parola è impossibile») e Robert Marshall («C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della Terra. Questa speranza sta nell’organizzazione della gente più sensibile ai valori dello spirito, affinché combatta per la libera continuità della natura selvaggia») furono quelli che mi spinsero a fondare un’associazione per la Wilderness nel mio Paese, affinché si impegnasse per la designazione di quelle che oggi sono le prime vere Aree Wilderness del vecchio continente, e fu nel pensiero del più noto scrittore americano di natura selvaggia e delle emozioni che essa desta nell’animo umano, Sigurd Olson, che infine io ho trovato me stesso, le mie idee, la mia visione del mondo naturale, un mondo di cui avevo ed ho bisogno e di cui avrò bisogno spiritualmente anche il giorno che non potrò più viverlo. E ciò evidenzia a me stesso che alla conclusione della nostra vita i valori veri saranno per noi solo quelli spirituali che ci riportano al punto di partenza della vita. Alla Terra. Così egli ha scritto:
«Cosa mi ha spinto nei boschi in tutti questi anni è stato l’amore per la bellezza. Se io guardavo un castoro non era tanto il castoro ed il suo ambiente ad attrarmi, quanto la luce sullo specchio d’acqua, lo scuro mistero della foresta circostante, la simmetria della diga. Se stavo seguendo le tracce di un cervo, non erano tanto le abitudini del cervo quanto i panorami di cui potevo godere dalle colline ed attraverso gli alberi. Se erano delle anatre, era più di ogni altra cosa la visione del loro volo contro il tramonto od il loro buttarsi giù nelle risaie piuttosto che gli uccelli in se stessi. In altre parole, era la scena quale un tutt’uno che mi attraeva, e che io erroneamente confondevo con la passione verso le scienze naturali solamente per la mancanza di una spiegazione migliore».
Questa è la Wilderness. Questo è il senso della sua filosofia, una filosofia che ci riporta ad una spiritualità primitiva ma allo stesso modo rimasta immutata nell’animo dell’uomo. Essa non deve però essere avulsa dal suo concetto di conservazione. Perché “forever wild” è l’unico vero principio di conservazione che fa grande questa filosofia!
(1) Walden ovvero vita nei boschi, edito in Italia da Rizzoli.
(2) Il testo integrale da cui è stato tratto questo passo si può leggere in Wilderness/Documenti N. 2/2008
«Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell’aria, e per questo l’impegno ecologico rappresenta oggi una priorità, altrettanto si dovrebbe fare per ciò che corrompe lo spirito, mortifica e avvelena l’esistenza spirituale. »
Papa Benedetto XVI
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