PARCHI E AREE WILDERNESS

Le comunità locali e la conservazione della natura in una liberal-democrazia: il caso-studio del Parco Nazionale d’Abruzzo

 

I Parchi Nazionali storici italiani furono istituti, rispettivamente: quello d’Abruzzo nel 1921 (sancito poi con legge nel 1923); quello del Gran Paradiso nel 1922; quello del Circeo nel 1934; quello dello Stelvio nel 1935. Poi ci fu l’ultimo, quello che non fu istituto come Parco ma come Ente: il Monte di Portofino, nel 1935. Tutti si ispirarono ai Parchi Nazionali americani, non solo come idea in sé, ma anche e soprattutto per il criterio su cui furono fondati, seppure adattati al sistema politico/sociale e fondiario italiano. L’idea era quindi nata bene: con la tutela della natura, il rispetto della proprietà privata e comunale era, se non garantita, almeno tenuta in ampia considerazione e così garantiti erano i diritti delle collettività locali (le leggi prevedevano la possibilità che i Parchi acquisissero i terreni per fini di conservazione, li assumessero in gestione o almeno fossero indennizzati i proprietari qualora fosse stato impedito loro il prelievo delle risorse naturali rinnovabili ed in particolare il taglio dei boschi). Addirittura, tra tutti i Parchi istituiti in quei primi anni del secolo scorso, forse il più garante di questi diritti finì per essere quello del Monte di Portofino, un Parco che solo molti anni dopo poté prendere questa definizione (nel 1995) e, per assurdo, assumendola, finì per perdere quei principi basilari di rispetto dei diritti democratici e liberali di conservazione sui quali era stata imposto il vincolo! Era epoca di monarchia ma anche di dittatura fascista, eppure quei primi Parchi sorsero basati sui principi democratici e liberali di quella componente politica che li rappresentava; principi che poi furono, di fatto ma anche per legge, assolutamente cancellati, o quasi, dal cosiddetto sistema repubblicano. Un paradosso, che però appartiene alla storia del nostro Paese e dei nostri Parchi Nazionali.

Come nei Parchi americani, anche in quelli italiani in alcuni casi si era trovato il modo di consentire la caccia (nel Gran Paradiso fino ai primi anni ’70 del secolo scorso – contribuendo non poco al suo sostegno finanziario in un periodo di casse vuote -, ed in Abruzzo fino a quelli ’60 – per soddisfare le esigenze dei cacciatori locali). Come nei Parchi americani, ad un vincolo assoluto di non taglio delle foreste, doveva seguire un equo indennizzo per le collettività locali. Come nei Parchi americani l’acquisto dei terreni o la loro assunzione in gestione era considerato basilare per ottenerne una vera conservazione. Tutte pratiche che poi finirono per essere messe da parte o ben poco applicate (unico fu il Parco d’Abruzzo a seguire queste pratiche nei suoi primi anni di vita; poi in parte minore negli anni cinquanta del secolo scorso; in seguito, con qualche metodo “impositivo”, negli anni settanta; poi ancora negli anni novanta; ed infine in questi ultimi anni con un metodo più corretto, grazie a certi paletti posti dalle autorità di controllo – per poter superare il vincolo imposto dai diritti di uso civico – costringendo il Parco a scendere a trattative con i Comuni). In pratica si è sempre più spesso preferito il metodo di imporre dall’alto un divieto di taglio, senza prevedere forme di indennizzo o, quando lo si è fatto, finendo per imporre anche questo, quasi mai ai prezzi di mercato; quindi con perdite nette per i poveri Comuni montani, costretti a subire vincoli d’imperio per garantire la preservazione di patrimoni ambientali in alcuni casi riconosciuti di valore sovrannazionale! Ciò non avviene negli USA, dove le aree protette, per potersi definire tali, devono assumere in proprietà federale (o anche statale) i loro territori, pagando ai privati il loro reale valore di mercato. Perché non è né democratico, né liberale, né giusto che i privati ed i Comuni sui cui territori incidono i Parchi, debbano a loro spese assicurare la conservazione dei patrimoni di biodiversità – paesaggistica, floro-faunistica, ambientale e culturale in genere – che appartiene a tutta la collettività nazionale, come avviene, di solito, nelle società socialiste.

Tutti i Parchi Nazionali e Regionali d’Italia seguiti a quelli storici sono stati istituiti con questi criteri e, per assurdo, le cose sono andate a peggiorare addirittura dopo la famosa “legge quadro” n. 394 del 1991 che ne disciplina l’istituzione e la protezione (ci volle poi però la Corte Costituzionale per sancire che una delle assurdità in essa contenute dovesse ritenersi anticostituzionale: il fatto che si potessero istituire Parchi senza l’assenso formale dei Comuni nel cui territorio essi ricadevano!). Ed è per questa semplice ragione che i nostri Parchi Nazionali e Regionali a tutto assolvono meno che alla conservazione dei patrimoni naturali che avrebbero mandato di fare. Se si sommassero tutti i soldi spesi da tutti questi Enti o Consorzi Parco, suddividendoli tra quelli utilizzati per conservare l’ambiente e quelli utilizzati per “valorizzarlo”, probabilmente alla prima fascia andrebbe forse meno del 10%: il che indica un fallimento delle vere finalità di queste istituzioni!

Se vogliamo salvare i nostri Parchi bisogna tornare a quei principi liberal-democratici sui quali furono fondate queste prime istituzioni; altrimenti sarà sempre una guerra continua tra le esigenze delle collettività locali e le esigenze dei Parchi. Come sta a dimostrare la storia del Parco Nazionale d’Abruzzo, ormai prossimo a festeggiare i 100 anni, non avendo mai veramente risolto i suoi problemi, né assicurato la conservazione delle due specie faunistiche per la difesa delle quali anche fu istituito (per assurdo il Camoscio d’Abruzzo si è salvato spostandone nuclei in altri Parchi, mentre per l’Orso bruno si è sull’orlo dell’estinzione).

Nonostante questo, non c’è quasi Parco Nazionale o Regionale che non sogni ulteriori ampliamenti, ampliamenti che secondo le leggi attuali metterebbero altri soldi in loro disponibilità, ma non devoluti alle collettività locali, bensì agli enti che li gestiscono, i quali poi li sperperano in iniziative spesso niente affatto conciliabili con le loro finalità primarie!

Se alle radici dei Parchi c’è l’esempio americano, allora è da quell’esempio che bisogna prendere spunti per risolvere i nostri problemi, a costo di dover rinunciare ad alcune fette di Parchi o addirittura a Parchi inutili (ne esiste un gran numero nel nostro Paese, aree di valore paesaggistico designate in Parchi solo per meri interessi politici!). Ecco allora che con questo numero del suo periodico l’Associazione Italiana per la Wilderness lancia una proposta alternativa, esemplificandola con una proposta cucita addosso al più antico nostro Parco Nazionale: quello d’Abruzzo, che più di tanti altri si vorrebbe allargare a tutta una fascia circostante con la scusa che così facendo si salverebbe l’Orso bruno dall’estinzione (quando ben altri provvedimenti necessiterebbero per ottenere questo successo). E, nel fare ciò, prendendo ad esempio la situazione presente in alcuni Parchi Nazionali storici americani, ed in particolare quello della valle di Yosemite e quello del fiume Yellowstone.

Lo Yosemite National Park, nella Sierra Nevada californiana, e lo Yellowstone National Park, negli Stati del Wyoming, Montana ed Idaho, furono i primi Parchi Nazionali ad essere istituiti in quel Paese e nel mondo intero. Dopo una serie di revisioni ai loro confini, risalenti ai primi decenni della loro esistenza, essi non sono mai più stati ampliati, nonostante la spettacolarità ed il grande valore d’insieme delle aree marginali. Poco distanti, o ad essi limitrofi, furono però istituiti alcuni altri Parchi, quali Sequoia e Kings Canyon in California, Grand Teton e John D. Rockefeller Jr. nel Wyoming. Nel frattempo negli USA fu coniata e si diffuse quella che oggi è definita filosofia Wilderness, dalla quale scaturì il suo concetto di conservazione che portò all’ideazione delle Aree Wilderness, un nuovo tipo di territorio protetto, quasi ignorato per decenni, ma che ben presto finì per assumere un’importanza anche superiore a quella degli stessi Parchi, perché ci si avvide che solo con tale forma di vincolo si sarebbe potuto salvare qualche pezzo di America selvaggia, che anche nei Parchi stava sempre più erodendosi a causa delle continue pressioni per un loro sviluppo a fini turistici. Con l’approvazione del Wilderness Act, nel 1964, pietra miliare del movimento conservazionistico americano, sempre più Aree Wilderness furono formalmente designate dal Congresso federale, alcune anche all’interno degli stessi Parchi Nazionali, per sottrarre tali territori alla sciagurata manipolazione dei loro gestori (che non per nulla furono tra i maggiori oppositori a questa legge!). In pratica, nel volgere di pochi anni, tutti quei Parchi Nazionali più sopra citati (ma anche molti altri) furono ben presto circondati o affiancati da Aree Wilderness, Aree Wilderness protette più ancora degli stessi Parchi, ma aperte ad un utilizzo venatorio di qualità che nessuno ha mai messo in discussione (attorno allo Yellowstone vi si cacciano anche il Grizzly ed il Lupo, quest’ultimo benché reintrodotto solo da pochi anni), ed anche al pascolo – seppure si tenda ad eliminarlo. Da allora, negli USA, nessuna organizzazione ambientalista si è mai sognata di richiederne il loro accorpamento ai Parchi Nazionali, ed anzi, per loro espresso impegno, sono state le Aree Wilderness che hanno finito per estendersi anche all’interno dei Parchi stessi, sottraendo territorio ai poteri gestionali dei loro amministratori. Aree Wilderness che se all’esterno dei Parchi sono aperte alla caccia, in tutte esse (comprese quelle nei Parchi) vi è però imposto un severo controllo all’uso turistico (numero chiuso e politica del Leave No Trace, cioè visita senza lasciare tracce del proprio passaggio), dove il rispetto dei valori naturalistici e della solitudine dei visitatori sono i principali obiettivi, per assicurare quella che viene definita “una perdurante risorsa di Wilderness”.

Questa è la soluzione che in Italia l’AIW propone da molti anni per i nostri Parchi Nazionali; l’unica in grado, da un lato di preservare i territori selvaggi ad essi circostanti, e dall’altra di preservare quelli interni ai Parchi a rischio di sempre maggiori pressioni da parte degli operatori turistici e commerciali (ma anche dal turismo escursionistico), assicurando alle collettività locali un diritto di utilizzo delle risorse naturali rinnovabili in cambio di un impegno al mantenimento dell’integrità territoriale, nei quali non si realizzino strade, torri eoliche ed ogni altra opera di natura urbanistica.

Nonostante quanto sopra illustrato, una profonda diversità esiste tra la situazione fondiaria americana e quella italiana: la proprietà dei suoli dei Parchi Nazionali e delle Aree Wilderness in America appartiene allo Stato federale, e solo in pochi casi a privati (il cui obbligo di legge è solo quello di cederli allo Stato in caso di vendita, ed a prezzo di mercato). In Italia la maggior parte dei territori interessati a questa eventuale politica appartengono ai Comuni ed in parte minore ai privati. Un vincolo d’imperio, come finirebbe per essere l’ampliamento dei Parchi, non risolverebbe alcun problema, ma anzi ne creerebbe altri, il primo tra essi un divieto di caccia inamovibile, per assurdo, contro una permissività generalizzata per ogni altra iniziativa, dalle centrali eoliche e fotovoltaiche, a rifugi, all’uso di quad e mountain-bike ovunque. E stesso discorso varrebbe se all’ampliamento di sostituisse quella che il legislatore ha definito “Area contigua”; comunque un imposizione di vincoli sui territori esterni governati poi dall’Ente Parco e quindi, di fatto, un ampliamento mascherato!

La soluzione delle Aree Wilderness che l’AIW propone si basa su un’esperienza già fatta in ben 58 di queste realtà distribuite in tutta Italia. In pratica sono gli stessi Comuni e/o proprietari ad autovincolarsi i propri territori, assicurandosi così una totale padronanza dell’impegno di salvaguardia preso, ma assicurando nel contempo il prelievo di tutte le risorse naturali rinnovabili col semplice rispetto delle leggi vigenti. Un compromesso che è basato sul rispetto di ogni diritto delle proprietà comunali e private, ma che nello stesso tempo assicura ai Comuni un richiamo turistico non dissimile da quello di un Parco. Poco, a fronte degli aiuti ed incentivi che un Parco promette (ma che spesso non mantiene!), ma anche una profonda assicurazione contro ogni forma di esproprio dei diritti fondamentali di Comuni e privati all’utilizzo delle risorse naturali rinnovabili (che anche quando permesse, nei Parchi sono comunque soggette a burocratiche pratiche autorizzative).

Certo, le Aree Wilderness che l’AIW ha fatto designare e continua a proporre in Italia (ma anche in Europa) non sono certo equiparabili a quelle americane, avendo dovuto cedere a compromessi proprio nel tentativo di trovare delle soluzioni alla diversa situazione fondiaria del nostro Paese. Ed ecco, quindi, che se negli USA nelle Aree Wilderness esiste un divieto assoluto dei tagli boschivi (e addirittura si consentono gli incendi naturali), in quelle italiane si è dovuto trovare il compromesso che, ad un severo impegno di salvaguardia dell’aspetto territoriale, si contrapponga un diritto di utilizzo delle risorse naturali, dalla caccia, al taglio dei boschi, al pascolo, alla raccolta di funghi e tartufi; diritti inalienabili e solo impedibili dietro contropartite economiche (indennizzi, affitti od acquisizioni). In pratica, si preserva il territorio ma si concedono gli utilizzi delle risorse rinnovabili (richiedendo solo un impegno di salvaguardia per zone di scarso valore economico, o comunque ritenute rinunciabili dai Comuni interessati a queste iniziative). Ma nelle intenzioni dell’AIW, il giorno che il mondo della politica dovesse fare propria questa nuova e più democratica forma di vincolo ambientalista, dovrebbe basarsi non più su di un concetto socialista tendente alla prevaricazione, bensì liberale, e dovrebbe essere prevista una forma di indennizzo o incentivo per i cosiddetti aggravi d’uso; nel senso che se si permettono i tagli dei boschi ma si impediscono le strade, i proprietari (siano essi Comuni o privati) subiscono degli aggravi d’uso. Allora questi aggravi se li dovrebbe assumere la collettività nazionale in cambio della preservazione di queste aree. Una spesa che sarebbe comunque estremamente inferiore ad ogni forma di finanziamento a sostegno di Parchi o altre forme di amministrazioni gestite dallo Stato, Regioni o chi per essi. In pratica, la stessa soluzione che oggi si prospetta per quelle collettività che si assumeranno il rischio di avere centrali nucleari sul loro territorio. Ed è il caso qui di ricordare che negli USA, nessun finanziamento particolare è consentito per la gestione delle Aree Wilderness, non essendo previsto per esse alcun organismo gestionale autonomo (come è per i Parchi).

Nelle figure che illustrano queste pagine sono quindi evidenziate le situazioni riferite ai Parchi Nazionali Yosemite e Yellowstone, con i loro circondari di Aree Wilderness, ma anche, e soprattutto, la situazione che si prospetta per il Parco Nazionale d’Abruzzo, con in evidenza le Aree Wilderness esistenti, quelle già proposte e quelle eventualmente proponibili, sia all’interno che all’esterno del Parco. Una proposta che, prima che alle autorità del Parco Nazionale, che sappiamo essere non del tutto favorevole a queste scelte, presentiamo ai Comuni, che con autodeterminazione potrebbero fare proprio quanto fin qui proposto, gettando le basi per un futuro riconoscimento anche politico delle loro libere e democratiche scelte, con accesso a fondi pubblici di sostegno.

di FRANCO ZUNINO