Come Thoreau, l’autore fa un filosofico viaggio tra il reale e l’immaginario per ritrovare se stesso e le radici della vita; un viaggio interiore ma pur tanto vero da averlo portato prima nelle foreste finlandesi ai confini con la Russia, e poi nell’estrema Lapponia
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D’improvviso un giorno decisi di partire, per affrontare un viaggio senza ritorno; esso avrebbe dovuto condurmi verso nuovi lidi, per aprimi le porte verso una realtà ben diversa, in parte inaspettata, ma da me inconsciamente da tanto tempo cercata. Avrei dovuto comporre un complicato puzzle senza averne l’immagine guida.
Trovavo delle luci cangianti, delle aurore musicali, delle voci inusitate e, alla fine, un lungo e indecifrabile incontro con un qualcosa che si librava in alto tra le cime dello spirito.
Era cominciata la mia ricerca, una ricerca che era senza soggetto né personaggi, una ricerca eterea dove il fluire delle silenti ed indissolubili anime conducevano ad un necrologio di vita.
Proseguivo a tratti con difficoltà, perché ciò che è profondamente vero non sempre è così facile. Aprii il mio cuore, spalancai i miei vuoti interiori e ascoltai in silenzio ciò che non udivo. Le luci, dopo la loro scomposizione, si ricongiunsero, ma sembravano sfuggire come foglie mosse da un forte vento.
Attraversai dune alberate, superai massi disarmonici, camminai lungo un sentiero che non vedevo, ma alla fine giunsi ad una improvvisa ed amena radura: aprii il mio petto e lasciai che le lacrime se ne andassero fluenti senza porre ostacoli. Era il veleggiare senza vento, ma anche un duro, veritiero risvegliarsi delle membra.
Ero partito per trovare ciò che restava della natura, una natura morente, che stava per essere sepolta, ma che io volevo ancora vedere e soprattutto sentire dentro me stesso prima che l’ultima manciata di terra fosse versata sui suoi resti. E, cosa di non secondaria importanza, volevo ancora capire e dire qualcosa. Avrei dovuto viaggiare a lungo, molto a lungo, per riconnettermi con un mondo ormai perduto da cui io stesso, forse, ne volli essere escluso. Dovevo trovare un luogo, un punto di ascolto, dove sentire un “vento” che probabilmente poteva insegnarmi qualcosa.
Giunsi ad un bivio. Due sentieri quasi impercettibili, ma in fondo palesemente delineati. Ne scelsi uno a caso, ma il tragitto che pensavo alternativo fu breve. Solo un centinaio di passi ed i sentieri si sovrapposero d’improvviso. Era forse un monito ad una finta scelta dove l’obbligo del procedere pareva che regalasse un diversivo. Il segno era chiaro: il cammino doveva essere percorso in unico senso privo di deviazioni e scevro di corruzioni. Poi vidi un’impronta nel fango, una impronta di un animale etereo, plastico, vanescente, sublime. Era passato da poco e in quel dagherrotipo di immagine scorsi agevolmente l’autore: un lupo. Vidi in quell’orma un mondo infinito, un mondo di ululati, fughe, corse a perdifiato e rigogli di gioie estinte. Mi soffermai, riflettei, fotografai col mio pensiero e poi compresi: quanti incontri avrei potuto fare nel mio viaggio e quale giusta via seguire senza una guida? Decisi così, in un sol fiato, di farmi “portare” spiritualmente dal quel simbolo della wilderness, della terra. Presi quella guida, la nominai più volte nel mio io e fui così rinfrancato che avrei sicuramente trovato il mio luogo di ascolto!
Il mio viaggio era volto a settentrione, il grande nord della madre terra, dove al freddo fisico che pungeva l’anima si contrapponeva la luce della limpidezza. Avevo ora almeno un punto di riferimento, un punto cardinale chiaro e definito. Ed avevo, soprattutto, la mia guida spirituale.
Sapevo di calpestare la mia ombra, ormai raggelata per la sua ineluttabile vanità. Calpestavo il mio dolore e la mia inerzia dinanzi al cangiarsi delle remote stagioni dell’anima. Seguivo intanto la pista del lupo e scorgevo, ai bordi del sentiero, le inevitabili devianze cui la mente tende. Distorsioni esistenziali, vacuità delle cose e, sopra ogni elemento, lo spirito fuggente che perde l’attimo per carpire il significato della terra. La nuda terra sotto i miei piedi e, dinanzi al chiaro vedere delle cose, l’oscura ombra di me stesso, intrisa di speranze egoistiche e centripete.
La mia meta era nel grande nord, doveva essere raggiunta. Solo lì percepivo che avrei potuto sentire l’assoluto e l’inossidabile vento delle magie dove ogni parametro si sarebbe disgregato per ricomporsi nel giusto verso della natura in una affinità elettiva senza compromessi.
Il desiderio di avere, di possedere, calunniava ciò che c’era di più puro nella madre terra. Io, la mia ombra, il mio intero stava ben appollaiato da un lato e, distinta e allontanata, la natura sembrava che mi osservasse sgomenta perché da me “volutamente” disgiunta. Avevo reciso ciò che era indivisibile, avevo rimosso ciò che era inamovibile ed ero entrato, classicamente e con spavalderia, nella mia mente divisoria rinunciando a quell’unicum che era il flebile, ma incessante vento delle origini.
Camminai molto, giorni e giorni, lasciando dietro alle mie spalle latitudini dopo latitudini. Cangiava ogni elemento, le foreste di conifere prendevano il posto a quelle delle latifoglie, e gli animali, sempre nuovi, mi guidavano verso settentrione. Un orso bruno nel fitto della foresta, un alce da qualche parte, la grande diga di un castoro che calmava l’andare delle acque e, la mia guida, il lupo, che, pur se non vedevo, mi indicava ognora la via. Ero, a tratti, stanco, ma sapevo che dovevo farcela.
Trascorsero molte lune e, giorno dopo giorno, guadagnai centinaia di chilometri. Non sapevo dove mi sarei dovuto fermare, ma fidavo nel mio senso interiore. Intanto nella mia mente si susseguivano velocemente le immagini della mia e soprattutto di tutta la vita dell’uomo con le sue “quiete disperazioni esistenziali” e con il suo procedere verso un luogo non definito, ma chiarissimo: la disintegrazione totale dell’ordine caotico della madre terra. Una disintegrazione che portava seco anche se stessi, ma, anche se non del tutto ignari, procedeva con estrema determinazione, come il fluire di un impetuoso tratto di fiume: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole” (Emanuele Severino). Quelle immagini mi scorrevano l’una dietro l’altra e tutte avevano un unico filo conduttore: recidere drasticamente il senso di unità con la terra. Era la stessa sensazione che avevo in me stesso, ma in questa occasione essa era traslata all’intera razza umana, almeno quella gran parte che rincorre il nulla e la divisione. Ma nel complesso, anche se in fondo non ci riuscivo, cercando con forza di non farmi soggiogare dal pensiero della sofferenza. Ricordai a tal proposito un bellissimo passo di un libro che ebbi la fortuna di scorrere qualche tempo prima: “Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. Io non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore….” (C. S. Lewis, “Diario di un dolore”).
Cieli plumbei, crepuscoli dorati, aurore vanescenti e luci che nella loro intensità illuminavano a giorno il mio pensare.
Il vento sulle guance, il fruscio delle foreste e, d’improvviso, il fragore del tuono dopo il fulmine.
Il mio procedere era rallentato perché sentivo che la mia guida ora progrediva non più linearmente, ma si fermava ad annusare l’aria, zigzagava a destra e a sinistra, come per dirmi che il momento di fermarmi era molto vicino. Ma non sarebbe stato certamente un fermarmi statico, ma fondamentalmente dinamico e soprattutto riflessivo e costruttivo perché, per comprendere appieno l’essenza dei fatti, l’unico modo era quello di ascoltare la natura. Il segno mi sarebbe quanto prima arrivato.
Mi trovavo in uno scenario quasi surreale: imponenti montagne sullo sfondo, un sinuoso e a tratti impetuoso fiume nelle vicinanze e, dappertutto, una grandiosa, millenaria foresta primigenia. Un ambiente che toglieva il respiro, che concedeva all’essere il più profondo senso della wilderness dei luoghi e dello spirito. Ero forse giunto al mio luogo di ASCOLTO, dove avrei probabilmente compreso il giusto esistere e avrei respirato nella mente l’aria dell’armonico vivere. Ascoltare, comprendere, riflettere……….. Mi sovvennero a quel punto le parole di una cara amica che quando me le disse non le condividevo in pieno, ma ora forse vi scorgevo qualcosa di coinvolgente:“La vita va vista attraverso tutte le sue sfumature come i colori di un prisma. Occorre lasciarsi penetrare dalle mille luci che la attraversano, perché poi alla fine del processo, tornano a ricomporsi, basta non opporre resistenza; ci sono cose che vanno vissute con partecipazione, come il male e il bene, l’amore e la gioia. E’ necessario farsi attraversare da loro e guardarle, in modo distaccato ma presente, facendo capire a chiunque che sei tu il padrone di te stesso, della tua mente e del tuo corpo”.
Fu questa la mia prima sensazione di pensiero ora che mi toccava il compito più arduo. Ricomporre il mio dissidio con la natura attraverso la penetrazione nei più reconditi recessi del cuore, onde demolire poco alla volta tutto quel trascorso errato e tangibile, ma del tutto effimero, di cui la mia mente, ben rappresentante di tutto il genere umano, era così fortemente incastonata.
Dovetti muovermi ancora per una decina di giorni, valicare piccole montagne e guadare piccoli fiumi, ma alla fine mi resi conto che il mio procedere non aveva più senso. La pista della mia “guida” era infatti scomparsa. Avevo percorso un lunghissimo cammino ed ora mi accorsi che ciò che cercavo potevo scoprirlo in tutta la sua interezza. Dovevo semplicemente, per modo di dire, ripulire a fondo le incrostazioni del mio essere, togliere i tappi dalle orecchie e cominciare ad ascoltare…
Ero dunque alla mia prima meta: avevo trovato l’importantissimo senso del luogo nel pieno della taiga, la grande foresta dell’emisfero boreale. Era il mese di maggio, ma mi occorreva un riparo perché non sapevo se sarei dovuto rimanere un anno, un decennio o l’intera vita.
Muovendomi qua e là, poi, tra il fitto della foresta, poco distante da un fiume e da un lago adiacente, vidi improvvisamente le fattezze di una vecchia capanna. Era costruita grezzamente in tronchi di pino, ma in molte parti era malandata. Sapevo che mi sarei dovuto mettere al più presto al lavoro per renderla abitabile, soprattutto per quando sarebbe sopraggiunto l’inverno, perché il freddo pungente che regalava il circolo polare artico non concedeva compromessi. Fortunatamente all’interno vi era una vecchia, grossa e sostanziosa stufa in ghisa, un tavolo massiccio, una sedia, uno scaffale di fronte alla porta e altre piccole pratiche masserizie. Sembrava che quella austera abitazione fosse stata abbandonata da non molti anni; vi era vissuto probabilmente un uomo solitario in cerca di pace o fors’anche un naturalista sensibile ad una vera natura o un anacoreta. Ciò non aveva importanza, ma occorreva porre mano alle dovute riparazioni.
Cominciai dal tetto, perché in alcuni punti era praticamente da rifare. Fortuna volle che dietro la capanna vi fossero numerose assi già tagliate e, senza riflessione alcuna, le presi e mi misi all’opera. Il tetto fu pronto in meno di una settimana. Ora dovevo stuccare alcune fessure che si erano formate tra i tronchi e, mentre procedevo nel lavoro, mi sentivo più un castoro che un essere umano. Pulii ben bene la stufa e la canna fumaria, costruii una lunga panca e sistemai al meglio ogni altra cosa che sembrava non essere a posto. Un’ampia finestra volgeva lo sguardo a sud, verso un fiume e un lago, una seconda volgeva la veduta verso ovest, mentre il pagliericcio su cui dormire era posizionato non molto distante dalla stufa. In inverno i quaranta gradi sotto zero probabilmente non si sarebbero fatti lesinare. Feci dei piccoli, ma piacevoli ornamenti e poi passai all’ultimo compito: preparare una congrua scorta di legna, altrimenti tutto il lavoro era stato solo un passatempo. Quest’ultimo compito fu, come ben si sa, estremamente faticoso, ma ebbi almeno la fortuna che le falde del tetto della dimora fossero sufficientemente sporgenti che potei mettere a riparo, in strette cataste, la legna tagliata e spaccata. In meno di un mese il luogo era nuovamente vivificato ed ogni cosa al giusto posto. Poi praticai un classico rito nordico, un’usanza per “battezzare” una nuova capanna: accendere la stufa e da fuori osservare il fumo che fuoriesce dal comignolo. Alla fine, scalpello alla mano, incisi su un cerchio di legno la mia epicurea frase preferita “Lathe biosas” (vivi nascostamente) e lo posi proprio sopra la porta principale d’ingresso (un’altra, infatti, era posta sul retro). Per ultimo decisi di dare un nome alla capanna e la scelta venne da sola: “Napapiiri”, il Circolo Polare Artico che anelavo di superare.
Ora che la casetta era stata riassettata dovevo fare un altro importante lavoro: attrezzarmi per ottimizzare al meglio una rudimentale canna da pesca, fabbricarmi un paio di racchette da neve e allestire qualche trappola per catturare qualcosa che mi garantisse il giusto nutrimento. Alla fine le cose fondamentali furono pronte e cominciò così la mia nuova vita…
Nota. Napapiiri è il finlandese per Circolo Polare Artico.
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