Ovvero … come farsi fumare il cervello e, per reazione, pensare ad un fiore, ad una foresta, ad un panorama selvaggio, per spegnere il principio di un incendio innescato dalle troppe riflessioni filosofiche, dal pensiero contorto ed avulso completamente dalla realtà terrena e dal modo di vivere degli stessi filosofi che lo diffondono!
E’ veramente incredibile come tanti “filosofi ambientalisti” di oggi sappiano interpretare a loro uso e consumo le teorie ambientaliste fino a giungere ad adattare la stessa storia dell’ambientalismo alle loro idee! Una mistificazione che ricorda quella della storia più recente, dal fascismo, al nazismo, al comunismo ed alle epopee che la hanno caratterizzata.
Prendiamo ad esempio il volume di “Pensare Ambientalista” (Paravia editore, Torino 2000) di Brian Schroeder e Silvia Benso di cui sono venuto a conoscenza da poco, e solo per le parti più strettamente riferite al conservazionismo vero e proprio, le quali ho letto di fretta, con noia, lieto di non aver dovuto leggere tutto il resto del volume: avrei corso il rischio di buttare alle ortiche tutti i miei anni di ambientalismo concreto, ancorché filosoficamente poco impegnato!
Cominciamo da alcuni errori palesi dovuti a cattiva informazione. A pag. 23, ad esempio, si parla della famosa “donazione reale” che permise la nascita del Parco Nazionale Gran Paradiso, definito “primo Parco Nazionale italiano”, quando è storicamente dimostrato come il primo nucleo protetto e così definito sia stato quello che diede origine al Parco Nazionale d’Abruzzo. Vi si asserisce che “Con decreto regio (…) Vittorio Emanuele III istituisce e dona allo stato italiano quello che è il primo parco nazionale del paese: il Parco Nazionale Gran Paradiso”. In realtà con quel decreto il Re non istituì alcun Parco, ne sottomise a protezione alcunché: più semplicemente donò allo Stato le sue proprietà nel massiccio del Gran Paradiso “nel caso che lo Stato volesse farne un Parco Nazionale”.
Alle pagine da 24 a 26 si fa poi passare come un conservazionista il noto primo capo del servizio forestale degli US, Gifford Pinchot, quando in realtà questi non fu mai un conservazionista, né un protezionista, né un preservazionista, ma più semplicemente un forestale che pensava solamente a gestire il patrimonio demaniale dello Stato per finalità prettamente utilitaristiche, mentre in quell’epoca altri erano i conservazionisti e/o preservazionisti come gli autori decidono (oggi!) di definirli, e tra essi il più noto John Muir. Un John Muir che gli autori fanno passare per “preservazionista”, quando questo termine nei libri di storia americana non è mai usato riferito a John Muir, definito invece “conservazionista”, conservazionista che si contrapponeva a chi voleva solo sfruttare le risorse naturali e le bellezze naturali d’America, e da tra essi proprio quel Gifford Pinchot che gli autori definiscono conservazionista e con il quale si scontrò fino agli ultimi suoi giorni di vita, colpevole ai suoi occhi di avere egli autorizzato una diga nella Hetch Hetchy Valley, gemella della più famosa Yosemite Valley (che costruire una diga sia per loro un atto conservazionista?).
Ma soprattutto insostenibile è la tesi generalizzata di dividere gli ambientalisti di quell’epoca in “conservazionisti” e “preservazionisti”. Una suddivisione che non è mai stata fatta in America, o che si sta facendo solo nei giorni nostri tra i filosofi dell’ambientalismo per scindere i due pensieri; perché i due termini solo semplicemente sinonimi, e solo di recente hanno assunto la suddetta dicotomia che si cerca di far passare come storica.
A pag. 27 essi addirittura scrivono: “Mentre la conservazione è tutela di qualcosa per qualcuno (l’essere umano), la preservazione è protezione di qualcosa da qualcuno (l’essere umano) per quel qualcosa stesso” ovvero danno vita ad un loro pensiero e ad una loro interpretazione, di cui non si trova riscontro nei libri storici del conservazionismo americano.
E la cosa bella è che su questa dicotomia si prosegue a disquisire per pagine intere, dando a credere che ciò sia storia, mentre è solo immaginazione o interpretazione di filosofi ambientalisti attuali, specie italiani!
In quanto da sempre un conservazionista, ritengo che per difendere la Natura, ovvero far sì che alcuni luoghi o cose si preservino per sempre inalterati (che era poi lo scopo di John Muir, e degli altri conservazionisti del secolo scorso), essi debbano essere conservati così come sono. Se un domani di me si dovesse scrivere come oggi si scrive di Muir, Pinchot o Muir, mi rivolterei nella tomba!
Questa loro visione nasce da una suddivisone tra antropocentrismo ed ecocentrismo, che come gli stessi autori dichiarano, hanno un confine tanto labile che bisognerebbe avere il coraggio di sostenerne la non esistenza, essendo da sempre stato unico lo scopo per cui si è creato il movimento conservazionista, ovvero la finalità di conservare, proteggere, tutelare, preservare il bene Natura per assicurare tutte quelle motivazioni che loro, i nuovi filosofi, si divertono a suddividere discettando di significati che non sono mai stati propri di chi le battaglie ambientaliste sul territorio ha portato avanti. Perché, anche il conservare un qualcosa per il suo valore di per sé non prescinde dal fatto che poi quella cosa possa essere utilizzata per altri scopi indiretti purché non annientatrici della stessa: per farmi all’esempio degli autori, conservo lo stambecco perchè ha diritto di esistere di per sé, ma quando la sua esistenza è tale da permettermi di cacciarlo o di sfruttarlo turisticamente, sarebbe solo sciocco, ed addirittura controproducente non utilizzarlo per questi altri fini, perché una conservazione di per sé portata all’estremo rischia di farne poi ottenere la distruzione o la perdita, quindi con un ritorno alla situazione originaria che ci spinse a prendere provvedimenti per conservalo, tutelarlo, proteggerlo o preservarlo che dir si voglia.
Abbastanza onesta è tutta la parte che in questo libro si dedica ad Aldo Leopold (dalle pag. 44 a 57), salvo il solito fatto di ignorare che egli fosse un cacciatore convinto e che oltre all’etica della terra egli si sia fatto conoscere nel mondo ambientalista americano piuttosto come il fautore della prima Area Wilderness del mondo. Queste sono le solite pecche di chi in Italia ha scritto di questo personaggio! E ciò che stupisce è il fatto che gli autori siano uno americano e l’altro incaricato presso università americane…
Per concludere l’analisi di questo libro: un pout pourrì di concetti filosofici (conservazionismo o preservazionismo, antropocentrismo ed ecocentrismo, ecodiritti ed ecodoveri, etica della terra, ecologia profonda, ecoregionalismo) che lasciano il tempo che trovano per chi pratica l’ambientalismo sul territorio; concetti che spingono il lettore: uno, a smettere di leggere per non cadere in confusione mentale; due, a gettare il libro in fondo alla libreria, per riandare con la mente ai luoghi naturali che egli ama e desidera conservare, preservare o tutelare per il mero e primario amore per una cosa bella di per sé ma di cui godere con gli occhi e con tutto lo spirito.
In pratica, anziché perdere tempo a fare queste disquisizioni per adepti, forse sarebbe meglio che questi filosofi, oltre a meglio documentarsi storicamente sul come si sia diffusa la storia del conservazionismo o protezionismo che dir si voglia, si occupassero almeno di salvare un albero in concreto!
Perché mentre i filosofi discettano di questa “lana caprina” noi conservazionisti, ambientalisti, preservazionisti, ecc. ecc. ci battiamo affinché qualcosa di naturale resti su questo pianeta e non sia del tutto soggiogato dall’uomo per meri interessi materiali. Questa è la stringata realtà dei fatti, il pensiero pratico messo a fronte di quello filosofico, che poi qualcuno magari si divertirà ad analizzare… stravolgendolo per adattarlo alle proprie elucubrazioni teoriche che mai nulla di concreto hanno portato alla vita dell’uomo e della Natura, né in senso pratico né in senso spirituale: perché i veri filosofi ambientalisti, da Thoreau, a Muir, a Leopold, a Snyder, ecc. di ben altro hanno parlato! Meglio leggere questi, che io considero i “filosofi-pratici”, che non i professionisti del parlarsi addosso, dell’interpretazione del pensiero di altri, quasi sempre per stravolgerlo.
di Franco Zunino
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