Forse tra i tanti che si sono occupati e che ancora si occupano dell’Orso bruno marsicano, tecnici, studiosi e semplici cittadini, che in varie occasioni hanno avuto modo di dire la loro su quest’animale, sul perché della sua drastica diminuzione e su cosa bisognerebbe fare per migliorare le cose, una voce è sempre mancata tra quelle “ufficiali”: quella dei Guardaparco del Parco Nazionale d’Abruzzo, persone che hanno dedicato una vita intera per la sua protezione, che lo conoscono, che ne conoscono i luoghi di vita, le esigenze e le negatività di tanti impatti antropici, ma alle quali raramente è stato chiesto un consiglio. Esperti più di tanti esperti, emarginati solamente perché non sempre in grado di mettere nero su bianco il loro pensiero in merito. In questa pagina parla ora uno di essi; una voce a nome di tanti come lui, pensionati o ancora in servizio, ex pastori, contadini o muratori o semplicemente dei disoccupati che hanno poi trovato nel Parco d’Abruzzo un lavoro come Guardaparco; un lavoro che per forza di cose è finito per trasformarsi in una passione, una passione che in taluni casi li ha marchiati per sempre: come nel caso di “Lillino” Gerardo Finamore.
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Vorrei esprimere il mio pensiero sulle condizioni che sono venute a mancare all’Orso marsicano, oggi ridotto ad un numero di circa 40 esemplari sparsi su quasi tutti i monti d’Abruzzo, del basso Lazio e del vicino Molise. Sono convinto che nel Paleolitico gli orsi e gli uomini erano predatori e tra di loro prede, fino al Neolitico: ciò circa fino a 10 mila anni fa, quando l’uomo, diventato sapiens, abbandonò le grotte ed iniziò a costruire capanne, per poi passare da cacciatore e raccoglitore a coltivatore ed allevatore. L’Orso certamente cominciò allora, lentamente, ad avere un rapporto diverso con l’uomo, che ora produceva risorse agricole e allevava animali domestici. Da qui i primi contrasti, nati con le incursioni che l’Orso faceva per procurarsi il cibo a spese dell’uomo, e l’uomo lì a difendere le sue risorse. Così è stato fino ai nostri giorni, negli ultimi secoli non escludendo fucilate e veleni e lacci, che finirono per far dominare l’uomo sull’animale, un dominio che dura tutt’oggi e che ha spinto l’Orso sull’orlo dell’estinzione. Cosa fare oggi per cercare di invertire la situazione? Continuare a studiare la biologia ed il comportamento di quest’animale come si sta facendo da oltre trent’anni a questa parte? O non è forse il caso di cominciare ad operare sulla base di quanto è già noto? Che male si farebbe se, per intanto, ritornassimo a seminare in grande stile campi di granoturco e fare altre cose che da anni in tanti hanno proposto, in attesa di decidere poi cosa esattamente fare in seguito, in base al risultato degli studi (che però sembrano non finire mai, visto che abbiano visto studiosi e ricercatori susseguirsi in continuazione senza alcun costrutto, da Zunino nel 1970 a Boitani nel 2005, passando per Boscagli, Roth ed altri minori, o loro collaboratori)? Dal mio modesto pulpito, col diritto della gente a cui appartengo, del luogo in cui vivo (Pescasseroli) e di ex Guardaparco, ecco le proposte che avanzo: 1) controllo del turismo, fenomeno che apporta un notevole disturbo, con delimitazione di sempre più riserve integrali dove sia vietato ogni accesso, affinché siano luoghi di pace per l’Orso e solo per l’Orso; 2) fermare l’abbandono delle coltivazioni e della pastorizia, per frenare le quali il Parco non ha mai fatto nulla, ed anzi le ha favorite – abbandono che ha “tagliato” quell’antico rapporto uomo-orso di cui ho già detto ed al quale l’animale era abituato da millenni, e che oggi spinge l’orso a sempre più frequenti e lunghi spostamenti verso zone più fiorenti dal punto di vista agricolo, esponendosi così alla “caccia” (numerosi orsi morti sono stati trovati intatti, prova che erano stati scambiati per cinghiali); 3) risarcire bene e prontamente i danni ai contadini ed ai pastori, oggi e da sempre inadeguati e legati a pratiche cavillose; 4) migliorare i rapporti con gli abitanti locali, oggi carenti, in particolare con quegli utenti dell’ambiente, quali i contadini, i pastori e i cacciatori (questi ultimi da non criminalizzare e farne di tutta l’erba un fascio, potendosi avere da essi importanti aiuti per la lotta al bracconaggio come ho più volte potuto costatare di persona); 5) dare agli abitanti locali quel merito che essi hanno sempre avuto nel mantenere una vitale popolazione di orso in centro Appennino, utilizzando di più la parola “folclore”, il cui storico significato (W. J. Tohoms 1846) esprime proprio quell’antico rapporto che esisteva tra uomo ed orso, cioè da molto tempo prima che nascesse il Parco Nazionale (rapporto comprensivo comprovato dai vari nomignoli affettuosi che la mia gente dà all’orso), rendendo quindi più partecipi gli abitanti locali alla vita del Parco ed ai problemi della salvaguardia del, più che d’altri, nostro Orso marsicano. In piena crisi per la popolazione (falcidiata da un’incredibile mortalità nei primi anni ’80 del secolo scorso), e con gravi problemi alimentari dovuti allo scarseggiare dell’agricoltura cui l’Orso si era abituato da generazioni e generazioni, il Parco decise infine di intervenire con la semina diretta di mais di alcuni terreni in siti strategici – come d’altronde da anni andava sostenendo l’esperto Franco Zunino. Ma ecco che sorse subito il problema delle vacche, cavalli e pecore che, pascolando sulle stesse zone andavano a danneggiare i campi, ma anche quello dei cinghiali, sempre più numerosi e competitivi. Le autorità si indirizzarono allora alla decisione di allontanare almeno gli erbivori domestici proibendo il pascolo, cosa che in realtà avrebbe rappresentato un altro danno alla presenza dell’orso, per l’antico legame alimentare che aveva con la pastorizia. Su mia proposta, fu allora adottata dalla direzione del Parco un sistema di recinzioni che impedisse agli erbivori domestici ed al cinghiale di accedere ai campi ma che non precludesse all’Orso la possibilità di farlo. Un sistema che la mia intuizione e conoscenza degli animali mi fece “inventare”, e che, messo in pratica dal 1986 al 1992 (per dire quanto vecchio sia il problema!), diede dei risultati sorprendenti: si trattava di una recinzione retta da cavi molleggiabili, che né il Cinghiale né erbivori domestici e selvatici potevano superare, mentre lo poteva fare l’Orso sollevandosi sulle zampe posteriori ed utilizzando quelle anteriori per abbassarla, di modo che la rete si risollevasse alle sue spalle dopo il passaggio. Fu un successo! Solo che anziché perpetuarla a lungo nel tempo, magari aumentando anche i campi così seminati e protetti, la cosa fu limitata a pochi luoghi e poi lentamente anche abbandonata per un disinteresse incomprensibile. Al contrario, furono sempre più in auge studi e ricerche, libri e convegni, radiocollari e ricettori satellitari ed altre cose del genere: uno studiare l’Orso stando a tavolino per scoprire in modo scientifico cosa bisognasse fare per favorire la crescita della popolazione. I campi di granoturco e le mie recinzioni sono forse cose troppo terra terra, non degne di interesse per autorità e studiosi avvezzi alle sale per conferenze ed ai computer portatili ed altri marchingegni “scientifici” dai quali ci si aspetta la rivelazione sui provvedimenti da prendere. Forse … Però intanto gli orsi sono sempre di meno e sempre più dispersi!
di GERARDO “LILLINO” FINAMORE
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