«INFANZIA INDIANA» O LA FELICITÀ NELLA WILDERNESS

Che resta della cultura e dello spirito dei pellerossa americani prima che fossero conquistati e le loro terre occupate da parte dei colonizzatori europei? Probabilmente nulla, o molto poco. Di veramente autentico solo i pochi ricordi che ci sono stati tramandati da chi visse quell’epoca e fu in grado di trasmetterceli. Dal libro “Infanzia Indiana” tradotto ed edito dalla Tranchida Editori Milano 1993-1997, è ripreso il pezzo qui pubblicato per la sua forza evocativa di uno spirito Wilderness che più di tanti saggi apparsi in Italia, di eminenti filosofi e/o pensatori, sa esprimere il senso che viene definito comunione con la Natura e spirito della Wilderness: l’uomo come membro del grande cerchio della vita in uno scenario ancora integro ed autentico. “Infanzia Indiana” è un libro poco noto tra i cultori della bibliografia sui pellerossa, eppure è forse l’unico dalla cui lettura si può comprendere il rapporto intimo che questo popolo aveva con l’ambiente. La sua importanza nasce dal fatto che, pur pubblicato per la prima volta nel 1902, sembra scritto oggi da un filosofo che voglia enfatizzare l’antico rapporto di quel popolo col mondo della natura. In realtà, la profondità di quanto espressovi nasce proprio dalla sua autenticità, perché, piuttosto che di ricordi storici, il Sioux (Santee Dakota) Ohiyesa ci parla delle sue emozioni e sensazioni, che pur durarono solo fino a quindici anni, quando fu costretto a lasciare la sua terra natia per la civiltà dei bianchi.

_______________________________________________________________________________________

Il mese di settembre richiama alla mente di ogni indiano la stagione della caccia autunnale. Ricordo una spedizione di questo tipo che si distinse dalle altre. Essa avvenne sulla parte nord-ovest della montagna della Tartaruga; avevamo cacciato il bisonte tutta l’estate, nella regione del fiume Mouse, tra quelle colline ed il corso superiore del Missouri.
Mentre i nostri tepee a forma di cono sorgevano a grappoli lungo le propaggini della fitta foresta che riveste il pendio laterale della montagna, la scena sottostante si presentava gratificante a un occhio selvaggio. Gli ondulati gialli pendii erano macchiati di mandrie di bisonti. Sulle sponde dei torrenti che scorrevano giù per la montagna vi erano anche molti alci, che apparivano di solito alla mattina e alla sera, e sparivano nella foresta durante la parte più calda della giornata. Anche i cervi erano abbondanti, e i ruscelli pullulavano di trote. Qua e là i torrenti erano sbarrati dall’industrioso castoro.
Nell’interno della foresta vi erano laghi con molte isole, dove l’alce, il wapiti, e gli orsi si trovavano in abbondanza. Gli uccelli acquatici si riunivano qui in gran numero, e tra loro le gru, il cigno, la gallinella d’acqua, e molti altri di specie più piccole. La foresta era piena inoltre di una grande varietà di uccelli. Qui le pernici facevano un altissimo rumore durante il periodo dell’accoppiamento, mentre i succiacapre cantavano come ispirati, e il gufo grigio regnava di notte.
Per me, da ragazzo, questo ambiente selvaggio era un paradiso. Era la terra dell’abbondanza. Per essere obiettivi, non avevamo nessuna delle sfarzosità della civiltà, ma avevamo ogni comodità e opportunità e sfarzosità della Natura. Avevamo anche il dono di godere della nostra buona fortuna, contro qualsiasi pericolo potesse essere in agguato su di noi; e la verità è che vivevamo nella più grande ignoranza di ogni tipo di vita che potesse essere migliore del nostro.
Non appena iniziava la caccia nei boschi, venivano messi in atto i costumi che la regolavano. Il tepee del consiglio scompariva. Un falò di caccia veniva acceso ogni mattina all’alba, nei pressi del quale ogni guerriero doveva apparire a fare rapporto. L’uomo che mancava a questo appello prima che la spedizione partisse per la caccia veniva ridicolizzato. Di regola, i cacciatori partivano prima del sorgere del sole, e il guerriero che veniva annunciato attraverso il campo come il primo a tornare con un cervo sulle spalle era un uomo da invidiare.
Il narratore di leggende, il vecchio Giorno Fumoso, era stato scelto per essere il banditore dell’accampamento, ed era lui a fare gli annunci. Dopo la colazione, udimmo la sua potente voce risuonare tra i tepee nella foresta. Nominò quindi l’uomo che avrebbe acceso il falò il mattino seguente. L’abito di pelle di cervo con le frange evidenziava grandemente il suo splendido fisico.
Gli uomini erano appena scomparsi nei boschi che tutti i ragazzi balzarono fuori, apparentemente impegnati nei loro giochi e nelle loro attività, ma in realtà facendo a gara l’uno con l’altro per velocità di osservazione. Man mano che la giornata scorreva, essi si mantennero sempre più attenti. Improvvisamente giunse lo strillo di un ragazzo al massimo della sua voce: «Woo-coo-hoo!» che annunciava la cattura di un cervo. Immediatamente tutti gli altri ragazzi si unirono al grido, ognuno cercando di arrivare prima degli altri. Ora noi tutti vedemmo il valoroso Wacoota completamente piegato sotto il peso del suo fardello: un grosso cervo caricato sulle spalle. La sua camicia di pelle di cervo a frange era spruzzata di sangue. Gettò il cervo sulla porta della casa della madre di sua moglie, secondo il costume, e quindi camminò fieramente fino al suo tepee. Sulla porta dell’abitazione di suo padre stette per un momento, dritto come un pino, e quindi entrò.
Quando venne portato un orso, un centinaio o più di questi monelli fecero risuonare i boschi delle loro voci: «Wah! Wah! Wah! Il valoroso Lepre Bianca sta portando un orso! Wah! Wah! Wah!»
Tutti questi cori di festa continuarono a essere cantati mentre la selvaggina veniva portata all’interno dell’accampamento. Alla fine, nel tardo pomeriggio, tutti i cacciatori avevano fatto ritorno, e felicità e soddisfazione regnavano sovrane, in un modo che non ho mai osservato tra la gente bianca, persino nella migliore delle occasioni.

di CHARLES A. EASTMAN (Ohiyesa)