La riscoperta della natura selvaggia quasi come antitesi dell’umanizzazione come metafora per la ricerca del silenzio, ed il silenzio come ricerca delle antiche radici di pensiero e dell’essenzialità dell’uomo in un articolo dello scrittore torinese reso famoso dal suo libro “Se questo è un uomo” (basato sulle sue esperienze di ebreo deportato nel campo di sterminio di Auschwitz durante l’ultima guerra mondiale). Ripreso dalla rivista Piemonte Parchi N. 7 del 1985, per gentile concessione
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Ad eccezione di casi estremi, gli uomini e le donne mi piacciono, o mi divertono, o almeno mi interessano. Mi interessano anche le loro opere, purché siano adatte allo scopo per cui sono state pensate: i figli della mano e quelli della mente (in specie i figli della mano e della mente), cioè, alla rinfusa, i libri e gli attrezzi agricoli, le case e i tessuti, i campi arati e le macchine, i gioielli, gli aerei, le fotografie, i ponti. Mi piace confrontare fra loro i recipienti: scatole, bottiglie, pentole, secchi, sacchi, cisterne, silos per i cereali; più in generale, tutti i manufatti destinati a contenere cose o creature che altrimenti si disperderebbero, e quindi anche le stie per i polli, i recinti per le pecore, le dighe, gli otri.
Però mi attirano di più gli spazi in cui l’uomo e la sua opera sono assenti. Ormai non è più facile trovarne in Italia, che è sovraffollata: lo è visibilmente, basta affacciarsi ad una qualunque delle sue frontiere. Non c’è campo che non sia stato arato, da secoli, da millenni; non c’è valico che non sia solcato da un sentiero, quando non addirittura da un’autostrada. I suoi stessi fiumi portano i segni della presenza umana, in forma di argini, di scali, di ponti; in tempi storici o preistorici, i fiumi, i torrenti, i ruscelli sono stati domati o violentati. Spesso, ed è il paesaggio più malinconico, l’opera umana permane, ma in rudimenti: è stata interrotta, ed il tempo l’ha consumata, resa illeggibile. E’ frequente trovare, in collina o in montagna, campi abbandonati, invasi dalle erbacce, ma che portano ancora il segno dell’aratro; a volte il grano o la segala si sono inselvatichiti, e sopravvivono in steli isolati, orfani. Altrove si riconoscono fossati asciutti che non sono certo opere di natura: forse sono frammenti di canali di gronda, forse trincee di guerre dimenticate da secoli. In altri luoghi ancora si trovano miniere abbandonate, e nei boschi strane radure: un tempo, quando il carbone di legna era un importante articolo di consumo domestico, erano sede delle carbonaie, la cui costruzione e conduzione erano arti millenarie che si stavano perdendo.
Per trovare la natura intatta, così com’era prima che l’uomo facesse la sua comparsa, nel mio Piemonte bisogna cercare a lungo, evitando le pianure, intensamene umanizzate. Bisogna varcare la soglia delle poche foreste che ancora rimangono: ma non inoltrarsi troppo, se no si rischia di uscire dalla parte opposta; e non scandalizzarsi se si incontrano, stampate nel fango, le impronte dei pneumatici mostruosi di un trattore, o cartucce di cacciatori, o scatole di sigarette, o lattine di cocacola. E’ tempo meglio speso salire al di sopra degli ultimi pascoli: qui “praeterit figura huius mundi”, ci si ritrova immersi, a seconda della stagione, nella nebbia, nella neve intatta, fra pietraie macchiate dai licheni, o magari anche fra sterpi e spini. Si prova un senso austero di continuità al pensare che così doveva essere il mondo quando “l’uomo non era”. Dove non c’è niente da trovare, né funghi, né selvaggina, né cristalli, è raro incontrare esseri umani: siamo esseri sociali e finalistici, pochi tra noi cercano la solitudine come bene a sé stante.
Perché la cerca chi la cerca. Non c’è un motivo unico, e spesso coesistono vari motivi. Per reazione all’attrito urbano, all’ossessione delle presenze umane, dei manufatti; nelle città perfino il “verde pubblico” è artificiale, manomesso; non ha più nulla di nativo. Per ritrovarsi pedoni, senza intermediari, senza ruote, in comunione col suolo; ed infatti, compatibilmente con l’ambiente, c’è fra noi chi si scalza per sentire la terra e l’erba. per ritrovare il silenzio, e qui occorre precisare.
Il silenzio assoluto è a sua volta un artefatto: lo si può trovare, ad esempio, se si entra da soli in fondo a una miniera, o in una grotta dove non corra acqua, o nelle camere prive di risonanza che usano gli acustici per le loro misure. Questo silenzio non è umano né terrestre: è sinistramente oppressivo, sa di clausura e di sepolcro e spinge alla fuga; forse perché vi si sente il monito del proprio cuore. Il silenzio che noi cerchiamo non è così severo, è rotto dal vento, da acque lontane, dalle cicale, dai grilli, dai cani in fondo alla valle, dalle campane, dalle voci degli uccelli. A volte, anche dal ronzio di un aereo, ma questo non disturba, così come non disturba, nel mare, il profilo di una nave lontana. Può essere il rombo attutito di un apparecchio ad elica, che suona bonario e pigro come quello di un bombo in cerca di nettare; più sovente oggi, è il sibilo di un reattore, otto o dieci chilometri al di sopra di noi, puntiforme, quasi invisibile se non fosse dalle due scie candide che si lascia dietro. Esse permangono a lungo, per ore; il vento le distorce e le sfuma senza distruggerle; a poco a poco diventano nuvole e si confondono con le altre nuvole. Sono il portato casuale di una innovazione tecnica, ma non deturpano il cielo e non inquinano il pensiero.
Ecco, questo è il punto. Il pensiero vivo dappertutto, anche in un filatoio, anche nel ventre di una nave da carico, anche nel traffico delle ore di punta, anche negli uffici, ma è un altro pensiero, costretto, obbligato. Quello di cui abbiamo bisogno, a tratti, per non perderci, è il pensiero lieve e libero dei nostri antenati pastori e agricoltori, a cui erano famigliari i tragitti delle nuvole ed i cammini delle stelle e dei pianeti. Ne abbiamo bisogno per ritrovare noi stessi, non più padroni, ma ospiti del pianeta.
di PRIMO LEVI
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