UN PICCOLO GUFO GRIGIO …

Un genitore cacciatore che insegna ai figli il senso della caccia attraverso l’esperienza di vita, sapendo inculcare loro un amore verso quel mondo della natura che lui apprezzava forse più di quanto egli stesso immaginasse, anche affrontando momenti toccanti in cui la mentalità infantile si scontra con la realtà della vita. “Ho sempre creduto che il mio papà andasse a caccia per noi, per portarci tanta buona carne”, scrive ad un certo punto l’autrice. Così i piccoli pellerossa americani accoglievano l’arrivo del loro genitore dalle battute di caccia! Qualcuno lo leggerà certamente come un racconto anticaccia, invece va considerato un racconto che esprime proprio il conflitto interiore di chi, comprendendo i motivi che portavano il genitore ad andare a caccia, non lo condanna, ed in fondo utilizza quell’esperienza di vita per fare delle riflessioni sul significato della nostra esistenza su questo pianeta. 

 

Adiacente al camino, in alto era appeso il fucile di papà. La mattina, quando ci alzavamo e il fucile non c’era, significava che papà era andato a caccia. Mio padre era un cacciatore, uno dei migliori di Mezzana, non sbagliava mai un colpo, si diceva. La selvaggina non mancava mai sulla nostra tavola: beccacce, lepri, volpi facevano parte dei piatti migliori cucinati da mamma. Eravamo tutti abituati a queste uscite di papà. Noi bimbi non riuscivamo ancora a preoccuparcene mentre la mamma, tante volte, quando usciva la mattina presto o a notte fonda, si arrabbiava e non poco. Ho sempre creduto che il mio papà andasse a caccia per noi, per portarci tanta buona carne. Un giorno sentii la motozappa scendere dal vicolo. Papà era tornato e il fucile non era appeso al camino. Quel giorno non si trattenne a scaricare la legna come faceva di solito e salì a casa a chiamare mio fratello, gli disse che gli aveva portato una cosa. Incuriosita, scesi anch’io con loro per vedere questo regalo. Entrammo nel garage, la motozappa era già parcheggiata, papà ci fece avvicinare e con un timido, quasi pudico sorriso, sussurrò a mio fratello: “guarda cosa ti ho portato”. Ci avvicinammo e rimanemmo fermi e storditi davanti a un bellissimo gufo grigio che muoveva due grandi occhi verde chiaro in tutte le direzioni, occhi spalancati e accusatori di non so quale crimine. Mio padre poi lo prese in mano e allora capii il velo d’accusa dentro quegli occhi: era ferito, sanguinava, un proiettile era entrato dentro il suo piccolo corpo. Mio fratello di soli cinque anni rimase serio, sconvolto. Io esclamai: “ma papà perché gli hai sparato!”. Mio fratello continuava a fissare il gufo, immobile. Lui amava gli animali, amava prendersi cura di galline, formiche, cani, del suo cardellino Lilly, sfogliava libri che ritraevano tigri, leoni e guardava tutti i documentari in tv sulla vita degli animali. Forse papà aveva portato quel gufo a mio fratello pensando di renderlo felice ma non poté non notare uno sguardo fisso su quella bestiola e capì subito che aveva sbagliato: non gli aveva portato uno splendido esemplare di gufo ma un semplice animale ferito e sofferente che riuscì a imprimere, sullo stato d’animo del suo bambino. Una sottile malinconia che contagiò anche lui. Ci mandò via e di quel gufo non ne sapemmo più nulla. Da quel giorno papà non ci portò che prede morte. Quel gufo mi fece interrogare sul mio papà cacciatore. Un giorno ci raccontò di aver ucciso anche gatti selvatici e falchi perché suoi antagonisti nella caccia alle lepri e beccacce. Un cacciatore dunque non uccideva solo per portare carne alla sua famiglia e non uccideva per odio verso gli animali. Il mio papà cacciatore amava la natura, la venerava, la proteggeva ma la sfidava, a volte vinceva, altre volte perdeva e da questo gioco perverso ne traeva un sottile piacere. Il gufo sulla motozappa con gli occhi spalancati e fieri era il simbolo di questa lotta e, al di là di questo strano conflitto tra singolari rivali, c’erano due bambini che non riuscivano a capire altro che la sofferenza e il diritto alla vita negato.

Eppure il papà cacciatore ci ha lasciato in eredità sia a me che a mio fratello il grande amore e rispetto per la natura e per gli animali.

Quando nacqui mio padre aveva un bellissimo bastardino nero dal pelo lungo che sembrava un incrocio tra un Terranova e un Setter. Alla mia mamma dopo pochi mesi dal matrimonio, notando il suo disappunto verso il suo amico cane, disse:” se vuoi bene a me devi voler bene pure al mio cane” e la mamma non poté far altro che abituarsi alla presenza un po’ ingombrante di Billy.

Billy seguiva papà ovunque, a volte sentivamo parlare in bottega credendo che ci fosse qualcuno e invece era papà che chiacchierava amorevolmente col suo cane.

Billy restò con lui per 14 anni e poi un bel giorno, come un vecchio saggio, salutò papà e la mamma e se ne andò a morire lontano, all’ombra di una quercia. Dopo di Billy, mio zio regalò a mio padre un cucciolo appena svezzato che aveva un grave handicap, a sentire papà, era una femmina. Mina era intelligentissima. Un’immagine legata a Mina: un asino, montato da mio fratello mantenuto dalla mano solerte di nonno Saverio e Mina che tira la fune alla quale l’asino è legato. Mina morì uccisa dal cacciatore. Dopo tanti tentativi per non farla ingravidare, pillole anticoncezionali, periodi di reclusione, allora forse non esisteva la sterilizzazione, ogni sei mesi papà era costretto ad uccidere la cucciolata di Mina che non riusciva a collocare in nessun modo e un giorno preso dall’ira le sparò. Soffrì così tanto che non toccò cibo per diversi giorni.

La nostra vita familiare è stata sempre caratterizzata dalla presenza di piccoli amici animali: cani, gatti, canarini, pappagalli, pesciolini rossi. Papà insegnò a tutti noi quanto l’amicizia di un animaletto sia capace di riempire la vita di emozioni e c’insegnò che la bellezza della natura non è opzionale ma è indispensabile alla nostra storia e alla nostra formazione di uomini e donne.

Esiste un posto magico: un piccolo appezzamento di terreno, un gruppetto di giovani alberi che si sono nutriti dei corpi degli animali sepolti ai loro piedi. È come se quegli alberi possedessero i loro spiriti che tornano a vivere attraverso lo stupore di tale consapevolezza.

Ogni essere che ha lasciato una traccia sul percorso della nostra storia, ogni essere che ci ha fatto gioire, emozionare e piangere, anche se diverso da noi, siederà nel nostro olimpo di ricordi ed affetti per sempre.

di CARMELA DE MARCO